A Milano aumentano furti e rapine: colpa della crisi?

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A Milano diminuiscono i grandi reati e gli omicidi, ma aumentano furti e rapine. Lo dice la Questura milanese, che negli scorsi giorni ha diffuso gli ultimi dati – ancora non certificati – relativi all’andamento della criminalità nel 2013.

Diminuiscono i reati contro la persona e i cosiddetti “grandi reati”, come gli omicidi, calati di quasi il 22% rispetto al 2012. Venticinque contro trentadue, comunque un numero alto se si ricorda, come è sempre opportuno fare, che dietro le cifre ci sono persone uccise e famiglie sconvolte dal dolore. Si riducono anche le lesioni dolose (meno 4,65%, da 4.800 a 4.577) e le violenze sessuali (meno 7,22%, da 526 a 488).

Fin qui le belle notizie. Ma c’è un però. Nel capoluogo lombardo aumentano infatti i reati legati alla microcriminalità, come furti e rapine. Per quanto riguarda i primi, gli incrementi maggiori riguardano quelli in abitazioni (+8,31%, da 22.572 a 24.448) e in esercizi commerciali (+5,30%, da 12.232 a 12.880). Ma aumentano anche i furti “con strappo” (+4,22%) e con destrezza (+4,08%). Uniche “categorie” risparmiate dall’aumento dei furti sono i motocicli (-21,23%) e le auto (-2,21%), anche se in questo caso i proprietari non possono comunque gioire, considerati i prezzi alle stelle delle assicurazioni.

Sul fronte delle rapine, sono in aumento tanto quelle in abitazione (+28,04%), quanto quelle in banca (+10,45%). L’amaro record spetta però agli uffici postali: 44 quelli rapinati nel corso del 2013 contro i 24 dell’anno precedente. Un aumento dell’83,33%. E i dati della Questura non citano le farmacie, altra tipologia di esercizi che registra un’impennata di rapine: più di 100, oltre il 30% in più secondo quanto scrive Repubblica.

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Fin qui i numeri. Quando però ci si spinge sulla loro possibile spiegazione, il comunicato della Questura dice: “La crisi economica continua a mordere e ad influenzare le condotte sociali, reati compresi”. Ma sarà davvero solo colpa della crisi?
Ascoltando racconti e leggendo libri su periodi passati, come il secondo dopoguerra o la crisi petrolifera degli anni 70, non mi è sembrato di vedervi una particolare recrudescenza di questi episodi criminosi. Certo, c’erano tanti di quegli altri problemi – terrorismo, povertà – e si usciva da situazioni terribili come la guerra. Però, a mio avviso, la riflessione da fare è un’altra.
Non è la crisi la ragione dell’aumento di furti e rapine, ma la bramosìa di ottenere tutto ciò che si desidera (o si crede di desiderare, ma questo è un altro discorso). Non si è più educati a conquistarsi, passo dopo passo, le cose. Se non le si ha, ce le si prende. Immediatamente, con qualsiasi mezzo. Quest’ansia di possesso, certamente indotta dai media, ma anche dai meccanismi produttivi attuali (quanti compreranno il nuovo iPhone senza avere nemmeno imparato a usare il modello precedente?), finisce con il travolgere l’etica e il rispetto delle regole. E’ una generalizzazione, e come tale va presa, ma serve solo per suggerire alla Questura di Milano che dare la colpa dell’impennata di furti e rapine alla crisi è una giustificazione sterile, un alibi che non sta in piedi. C’è chi combatte la crisi in maniera diversa dall’andare a rubare, e anche purtroppo chi è costretto a subirla, ma senza perdere la sua dignità e tradire i suoi valori.

Il giallo (in bianco e nero) di via Tadino

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Più che un romanzo poliziesco, Il giallo di via Tadino (Dario Crapanzano, Fratelli Frilli editori) è un’evocativa cartolina di una Milano che non c’è più. Una città in cui corso Buenos Aires si chiamava ancora corso Loreto, in cui le ferite causate dalla guerra erano ben evidenti. Non solo in senso figurativo, ma concreto: nelle macerie, che sarebbero state accumulate per formare l’unica montagnetta di Milano, il Monte Stella; nelle improvvise spianate tra un palazzo e l’altro create dai bombardamenti, per la gioia dei ragazzi che vi potevano improvvisare campetti da calcio e degli artisti del circo che potevano esibirsi con i loro spettacoli itineranti.

Ecco, è tra queste immagini, rigorosamente in bianco e nero, che si svolge l’intreccio “giallo” del romanzo di Crapanzano. Che assume quasi una rilevanza minore rispetto al resto. Sia per la consistenza della storia, a dire il vero non tanto avvincente, sia per la mancanza – immagino perfettamente voluta – di suspense. Sia, soprattutto, per la bellezza, di contrasto, di questo viaggio nel tempo, che testimonia anche il grande lavoro di documentazione fatto dall’autore, comunicato dallo stesso Crapanzano in apertura e chiusura di romanzo.
Insomma, il commissario Mario Arrigoni, irreprensibile poliziotto del secondo dopoguerra, figura di alta statura morale, senza ombre, che serve a un Paese che lotta per lasciarsi alle spalle una stagione di scontri appena accennati, è più un espediente narrativo per raccontare la Milano che fu, che un eroe che ammalia e intriga. Alla fine, in ogni caso, “Il giallo di via Tadino” è una lettura piacevole, che scorre, senza troppi colpi di scena ma invitando il lettore ad arrivare, pagina dopo pagina, alla fine.

Ti amerò fino ad ammazzarti. O a farmi ammazzare.

Uno spot anti-femminicidio

Uno spot anti-femminicidio

C’è un recente fatto di cronaca che riassume, meglio di ogni altro, tutte le discussioni, i convegni, le proteste, le manifestazioni e le campagne mediatiche che si sono fatte, si fanno e si faranno sul femminicidio. Termine di dubbio gusto, imposto forse dalla necessità giornalistica di dare un’etichetta ai problemi del mondo. Ma che al netto delle polemiche lessicali identifica un fenomeno insopportabilmente odioso: la violenza contro le donne. Un fenomeno tanto antico quanto ingiustificabile.

Il fatto in questione si svolge in provincia di Taranto. Una ragazza 20enne, Ilaria, convive con Cosimo, 24enne pregiudicato, in una villetta bifamiliare a due piani. I due abitano al piano terra, al piano di sopra vive la mamma della ragazza. La giovane sopporta da tempo le angherie del fidanzato, senza mai denunciarle. Con un atteggiamento che dall’esterno potrebbe risultare un misto tra stoicismo, rassegnazione e idiozia. Forse, più semplicemente, è una forma di amore. Qualunque cosa sia, questo atteggiamento raggiunge il culmine una domenica sera. Quando l’uomo spara alla donna un colpo con la sua pistola scacciacani modificata. Un colpo che perfora il rene della donna. Che sta zitta, sopporta il dolore – quale sia più atroce, tra quello del corpo e dello spirito, è impossibile sapere – e va a dormire. Aspettando il giorno dopo, confidando che la nuova alba cambierà le cose, farà rinsavire il suo ragazzo, fermerà le violenze. Così non è.

Il giorno successivo l’uomo non solo non è cambiato, ma prosegue nella sua folle opera criminale. Spara un secondo colpo, questa volta al torace, a Ilaria. Che, stravolta dal dolore, finalmente spaventata dalla rabbia della persona con cui condivide la vita, si rivolge alla mamma. a questo punto i fatti divengono ancora più confusi e quasi paradossali. Se non fosse che è tutto vero. La madre della ragazza chiama il 118, che arriva per soccorrere Ilaria. Ma la rabbia dell’uomo non risparmia il personale sanitario, spara dei colpi anche contro l’ambulanza, in un delirio di onnipotenza e di possesso, come se si sentisse padrone assoluto della sua fidanzata.

Alla fine, in questa tragica storia, Ilaria viene portata in ospedale e operata.  Adesso si trova in condizioni critiche. Mentre il suo ragazzo viene arrestato dai carabinieri. Questa storia finisce così, almeno per ora. Ognuno è libero di trarne insegnamenti, giudicare, trovarvi la morale, come nelle favole. Questa è la mia: esistono persone che credono che l’amore sia possesso senza regole, e altre che credono che amare voglia dire sopportare tutto, senza opporsi. Quando queste due diverse concezioni si uniscono, il risultato sono storie come questa. Chissà quante ce ne sono già.

@fraloia

Il crimine è un “buco nero” nella nostra mente?

Fosse ancora in vita, probabilmente Cesare Lombroso, il medico fondatore dell’antropologia criminale e seguace della frenologia,  si sfregherebbe le mani.

Cesare Lombroso

L’inventore dell’antropologia criminale, Cesare Lombroso (1835 – 1909) (Fonte: Wikipedia)

Perché circa un secolo dopo la sua morte, avvenuta nel 1909, il principio di fondo da lui portato avanti, quello secondo cui alcune caratteristiche anatomiche sarebbero direttamente correlate a comportamenti devianti, viene ribadito da alcuni studi recentissimi. Con alcune differenze, certo: al posto della dimensione del cranio e della fossetta occipitale mediana vi sono zone del cervello poco sviluppate o mutazioni genetiche.

L’ultimo studio, in ordine di tempo, è quello condotto dal professor Gerhard Roth, neurobiologo tedesco che avrebbe scoperto attraverso delle radiografie come, all’interno del cervello di alcuni criminali, si trovi un “buco nero” che, a detta del medico, sarebbe la causa dei loro comportamenti criminosi.

Gerhard Roth

Il neurobiologo Gerhard Roth, dell’Università di Brema (Fonte: Università di Brema)

In un’intervista al Daily Mail, ripresa da Lettera 43, lo scienziato ha affermato: “Quando sottoponiamo assassini, stupratori e ladri a una radiografia, la zona cerebrale rivela quasi sempre gravi carenze nella parte frontale-inferiore”.

Il buco nero

Il “buco nero” nella regione frontale-inferiore del cervello, da dove partirebbe l’attitudine a delinquere (Fonte: Daily Mail)

Si tratterebbe di un deficit nello sviluppo del lobo frontale-inferiore, che potrebbe essere causato anche da traumi e patologie tumorali e in presenza del quale, secondo il neurologo tedesco (che risulta direttore dell’istituto di ricerca sul cervello dell’Università di Brema) ci si troverebbe di fronte a un potenziale criminale nel 66% dei casi. Anche nel caso di ragazzi. Da qui, discetta lo scienziato, l’importanza della scoperta: ovvero la possibilità di sottoporre a cure e rieducazione le persone con questo problema, anche coloro che non hanno ancora mostrato comportamenti anti-sociali.

Pur ammettendo “l’importanza fondamentale dell’ambiente di crescita” quale causa delle azioni criminali, resta la forte perplessità dinanzi ad affermazioni così nette da richiamare scenari raccapriccianti, quali l’eugenetica, o fantascientifici, alla Minority Report, il film di Steven Spielberg (basato su un racconto del visionario Philip K. Dick) in cui le persone vengono arrestate per crimini non ancora commessi, ma che sarebbero (quasi) sicuramente in procinto di commettere.

Eppure, lo studio del dott. Roth non è il solo nel suo genere. E’ del 2011 la notizia di una ricerca condotta dal dipartimento di neuroscienze dell’Università di Torino che ha sostenuto come, alla base della pedofilia, ci potrebbe essere una mutazione genetica dovuta all’alterazione della progranulina, sostanza importante anche nella differenziazione sessuale.

Si tratta di uno studio autorevole, pubblicato sulla rivista internazionale Biological Psychiatry e corroborata dal caso, risolto positivamente, di un uomo di 50 anni che provava attrazione per la figlia di 9 e che, dopo adeguato approccio neurologico e psicologico, non ha più manifestato comportamenti pedofili.

Che sia arrivato il momento di aggiungere, all’incapacità di intendere e di volere, la predisposizione genetica o cerebrale al crimine quale condizione di non imputabilità di una persona?

Buon viaggio, Jakob!

Jakob Arjouni

Jakob Arjouni, scomparso a 48 anni (Fonte: Die-Welt)

 

Un’ultima avventura – Bruder Kemal (Fratello Kemal) – che da noi arriverà prossimamente grazie alla Marcos y Marcos. E poi, purtroppo, il detective privato Kemal Kayankaya, protagonista dei romanzi dello scrittore Jakob Arjouni, si ritirerà in pensione. I lettori che lo scopriranno potranno solo rinverdire i fasti delle sue storie passate, nel sottobosco di una città, Francoforte sul Meno, che, come ricorda Der Spiegel, ha acquisito grazie alle sue indagini un odore simile alla Los Angeles dell’hard-boiled.

Il creatore di Kayankaya si è arreso, dopo una lunga lotta, al cancro al pancreas che lo aveva colpito. Se ne è andato giovedì 17 gennaio, a 48 anni, e se ne è andato da inventore di un sottogenere, l’etno-noir. Nato a Francoforte, dopo un’infanzia turbolenta caratterizzata dalla scarsa voglia di studiare e dalle frequenti visite a sale da biliardo e affini, Jakob Arjouni  a soli 21 anni diventa famoso grazie al primo romanzo con protagonista il detective privato Kayankaya, Happy Birthday, turco!, che ravviva un genere ormai in declino in Germania e diviene un modello imitato in altre parti d’Europa.

Perché questo Kemal Kayankaya, turco ma con passaporto tedesco, pur incarnando gli sterotipi dei detective alla Marlowe e Hammett, vive nel suo tempo e nella sua città. Ne respira gli umori, ne sente e ne combatte i pregiudizi dovuti alle sue origini. Uno spaccone che incanta, lentamente, svariate migliaia di lettori.

E’ però riduttivo legare il nome di Arjouni solo al suo Kemal, per quanto egli ne sia la creatura più nota. Lo scrittore compose diverse opere teatrali e diede alle stampe un altro romanzo, Eddy il Santo, che è un vivace e puntuale affresco di un’altra città, insieme tedesca e del mondo intero: Berlino.

Dalla lettura di Eddy il Santo emerge tutto il talento di Arjouni nel dare vita a personaggi che divengono immediatamente beniamini dei lettori , proprio come il musicista-truffatore Eddy Stein. Una simpatica canaglia che vive a Kreuzberg, quartiere alternativo, e fa fronte con l’ingegno e abili trucchetti illeciti alle poche entrate garantite dal suo lavoro ufficiale come musicista dei Lover’s Rock, gruppo musicale di strada. Nelle sue (dis)avventure si incrociano tutti i problemi di una città e di un’intera epoca: la disoccupazione, la globalizzazione, la de-localizzazione con i suoi stravolgimenti sulla topografia cittadina, e soprattutto la costante contrapposizione tra chi, disilluso, ha abbandonato i valori in cui credeva, e chi ancora li coltiva, anche se con pochi quattrini e i capelli ormai brizzolati.

Buon viaggio, Jakob!

 

 

 

Happiness is a warm gun?

Le vittime della strage di Newtown

Nomi ed età delle vittime della sparatoria nella Sandy Hook Elementary School avvenuta a Newtown, USA, venerdì 14 dicembre (Fonte: elaborazione de Il Messaggero su grafico del New York Times).

“La felicità è un’arma calda nella tua mano”. Era il titolo di un articolo apparso su una rivista della NRA – National Rifle Association, potente lobby americana delle armi fondata nel 1871 a New York per difendere il famoso “Secondo emendamento” della Costituzione, quello che consente a tutti i cittadini americani di possedere un’arma.

Un’arma, ma non necessariamente una pistola, né un’arma d’assalto, del tipo di quelle automatiche o semi-automatiche capaci di sparare più colpi al minuto, il cui utilizzo appare eccessivo sia per la caccia – attività spesso indicata come valido motivo per possedere fucili e pistole – sia per difendere l’incolumità propria e della propria famiglia – a meno che non si pensi di poter essere attaccati da un intero esercito.

Proprio queste ultime tipologie di armi sono state utilizzate venerdì 14 dicembre da Adam Lanza, 20enne del Connecticut, per uccidere 27 persone – 20 erano bambine e bambini tra i 6 e i 7 anni – presso la Sandy Hook Elementary School di Newtown, e quindi togliersi la vita.

Una tragedia che entra al secondo posto nella macabra classifica delle più sanguinose sparatorie della storia recente degli USA, dietro alla strage del 16 aprile 2007 alla Virginia Tech, a Blacksburg, in cui Seung-Hui Cho, studente di inglese 23enne, uccise 32 persone prima di togliersi la vita.

“Happiness is a warm gun” cantavano nel 1968 John Lennon e i Beatles, ispirati da quella rivista della NRA.

Nel 2002 Michael Moore inserisce questa canzone all’interno del suo documentario Bowling for Columbine, vincitore del premio Oscar 2003. Il film racconta un’altra carneficina, avvenuta questa volta il 20 aprile 1999 alla Columbine High School di Littleton, Colorado. Eric Harris e Dylan Klebold, 18 e 17 anni, uccidono un insegnante e 12 compagni di scuola e ne feriscono altri 24, sparando contro di loro oltre 900 proiettili.

Ma Moore non racconta solo questo. Parla di “un’America che vive e respira nella paura”, sentimento alimentato da un cortocircuito in cui media, politica, disagio economico e sociale e scarsi diritti giocano la loro parte. Un Paese che ha un rapporto morboso con le armi e in cui, dinanzi a stragi come quelle di Columbine, la reazione della maggior parte delle persone è quella di stringersi, ancora di più, intorno alla propria pistola, in cerca di protezione.

Percentuali dei favorevoli e contrari alla limitazione delle armi

Americani favorevoli a limitazioni al possesso di armi vs. americani difensori della libertà di detenerle: percentuali dopo le più importanti sparatorie recenti (Fonte: PEW research center).

Questo, almeno, fino all’ultima strage.

Le immagini dei bambini uccisi – che qui non mostreremo -, la reazione al tempo stesso commossa e decisa del presidente Barack Obama – di nuovo persona dell’anno per Time dinanzi all’ennesima carneficina hanno fatto scattare qualcosa nel Paese in cui si sono registrate 15 delle peggiori 25 sparatorie di massa degli scorsi 50 anni. La lobby della NRA si è chiusa in un silenzio irrituale quanto arrogante, oscurando la propria pagina Facebook da 1,7 milioni di like e l’account Twitter (@NRA). Un silenzio interrotto solo martedì 18 dicembre, quando in uno scarno comunicato i vertici della NRA hanno comunicato di essere “scioccati, rattristati e distrutti dall’orribile tragedia e pronti a offrire un contributo significativo per far sì che non si possa più ripetere una cosa simile”.

Questa strategia non ha funzionato.

Per la prima volta dopo una strage, un sondaggio effettuato subito dopo la sparatoria di Newtown ha evidenziato che il 52% degli americani si dichiara a favore di “maggiori limitazioni” o “messa al bando” di alcune o tutte le categorie di armi. In sostanza, ciò che la senatrice Dianne Feinstein intende proporre quando il nuovo parlamento si insedierà a Capitol Hill, a gennaio. Un bando, quelle alle armi automatiche, che fu introdotto già nel 1994 da Bill Clinton e che restò in vigore fino al 2004, quando George W.Bush decise di non rinnovarlo.

E’ una svolta, come afferma Federico Rampini sul suo blog Estremo occidente.

Basterà da sola a far cessare o diminuire queste stragi?

Difficile, perché un Paese nato dal genocidio degli indiani nativi, che ha costruito la propria potenza economica sulla schiavitù e la propria egemonia mondiale sull’uso sistematico della violenza e delle armi per rovesciare e insediare governi in ogni area del globo in cui erano in ballo propri interessi strategici, non è un buon esempio per i propri cittadini.

Però, pur dinanzi a tutte le difficoltà del caso, questa volta sembra che l’America abbia deciso, per lo meno, di provarci: “Sono problemi complessi, è vero. Ma questo non giustifica l’inazione: abbiamo l’obbligo di provarci”. Firmato: Barack Obama.

 

Il lato noir di Courmayeur

E’ una meta sciistica rinomata non solo per le sue piste, quanto per una fama di mondanità che sembra più che meritata, facendosi un giro tra le boutique di via Roma o nelle viuzze del suo piccolo centro. Ma a Courmayeur, da diversi anni a questa parte, si nasconde anche un lato oscuro. In realtà nasconde non è proprio il termine esatto, anzi è vero proprio il contrario: il lato oscuro qui si celebra, ogni anno, con un vero e proprio festival a esso dedicato: il Courmayeur Noir Film Festival, che quest’anno delizierà gli appassionati dal 10 al 16 dicembre.

Dal 1993 – anno in cui la località valdostana sostituì Viareggio come sede del Festival – sono innumerevoli gli artisti, più o meno legati al genere noir, che hanno lasciato le proprie impronte sulla neve fresca. Impronte destinate a scomparire per sempre, come in un’ideale Walk of Fame del poliziesco, se non fosse per l’opera e il lavoro degli ideatori Giorgio Gosetti e Marina Fabbri – unitamente allo stuolo di giornalisti e appassionati presenti a ogni edizione. Ed ecco allora, annoverati tra presenze assidue o semplici comparse, registi di culto come Quentin Tarantino – che nel ’92 portò qui il suo Reservoir Dogs (Le Iene), sfolgorante esordio alla regia di un lungometraggio -, Sam Raimi, Wes Craven e scrittori del calibro – è proprio il caso di dirlo – di Manuel Vasquez Montalban, Andrea Camilleri, Jeffrey Deaver, Giorgio Faletti, Petros Markaris, P.D. James, Ignacio Taibo II. Ma l’elenco è davvero lungo (lo trovate qui), considerando che, accanto al Leone Nero assegnato ogni anno alla miglior pellicola noir, al Courmayeur Noir Film Festival si assegnano anche il premio Raymond Chandler, riconoscimento alla carriera per i maestri di thriller e noir – lo hanno vinto, tra gli altri, Sciascia, Camilleri, Fruttero & Lucentini, Montalban – e il premio intitolato a Giorgio Scerbanenco, destinato al miglior giallo edito in Italia.

Proprio alla figura di Scerbanenco, presenti la figlia Cecilia e il curatore Cesare Fiumi, sarà dedicato un incontro volto a illustrare una breve quanto misconosciuta collaborazione tra lo scrittore di Traditori di tutti e di I milanesi ammazzano al sabato e il Corriere della Sera, intercorsa tra il 1941 e il 1943, in pieno periodo bellico.

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Lo scrittore Giorgio Scerbanenco (1911 – 1969) (Photo: ilsole24ore.com)

Questo appuntamento, insieme a una serie di incontri intitolato Noi(r) e le mafie, rappresenta la vera particolarità – e il miglior pregio – di un Festival che celebra un genere senza confinarlo in spazi angusti e innaturali, ma anzi sondando a fondo le mille commistioni tra realtà e finzione, spesso così fitte che è impossibile vedere dove finisce una ed inizia l’altra.

Tra le grandi anteprime in programma nella XXII edizione del Courmayeur Noir In Festival, la proiezione del film Hitchcock, di Sacha Gervasi, con Anthony Hopkins nel ruolo del regista di Psycho e un cast che annovera anche Helen Mirren, Jessica Biel e Scarlett Johansson e alcune scene del prossimo lavoro di Gabriele Salvatores dietro la macchina da presa, Educazione Siberiana, dal romanzo di Nicolai Lilin.

E ora, per finire in bellezza, un inizio da storia del cinema.

32 anni senza John, un giorno senza Lisa

John Lennon (Fonte: johnlennon.com)

John Lennon (Fonte: johnlennon.com)

Esattamente 32 anni fa, verso le 11 di sera, John Lennon veniva assassinato da un suo fan, Mark David Chapman, davanti all’ingresso della sua casa nel Dakota Building, sulla 72ma strada di New York. Aveva da poco compiuto 40 anni.

Chapman si appostò sotto casa dell’ex Beatles fin dalla tarda serata. Quando Lennon uscì di casa, verso le 7 di sera, lo squilibrato – attualmente recluso nel carcere newyorkese di Wende – si fece autografare una copia dell’album Double Fantasy, che era uscito pochi giorni prima. Una straordinaria quanto agghiacciante foto, scattata da Paul Goresh, ritrae Lennon e il suo futuro assassino insieme.

John Lennon firma un autografo a Mark David Chapman, colui che lo assassinerà dopo poche ore. E' l'8 dicembre 1980 (Photo by: Paul Goresh).

John Lennon firma un autografo a Mark David Chapman, colui che lo assassinerà dopo poche ore. E’ l’8 dicembre 1980 (Photo by: Paul Goresh).

Alle 22.50 circa John Lennon rincasò, insieme alla moglie Yoko Ono. Chapman, che era rimasto sempre lì, chiamò l’ex Beatles, pronunciando la frase “Hey, Mr. Lennon, sta per entrare nella storia” ed esplodendogli contro 5 colpi di rivoltella, di cui 4 andarono a segno.

Finì così, alle 23.07 circa dell’8 dicembre 1980, la storia mortale di uno dei più grandi cantautori di tutti i tempi. Uno che aveva immaginato un mondo in cui non ci fosse “nothing to kill or die for”, caduto proprio per mano di chi i suoi testi li aveva letti in modo maniacale, e aveva deciso di punirlo, apparentemente, per il suo ateismo e per le contraddizioni tra lo stile di vita di Lennon e ciò che lui predicava nelle sue canzoni.

Chapman, che al momento dell’arresto aveva con sé una copia de Il giovane Holden di J.D.Salinger, è stato sempre dipinto come una persona con gravi disturbi mentali. Famosi i “piccoli uomini” che secondo l’uomo abitavano la sua testa, e che lo avrebbero cercato di distogliere fino all’ultimo dall’omicidio, purtroppo senza riuscirvi. A 32 anni dall’omicidio, Chapman, ora 57enne, è ancora in carcere per il suo crimine, per cui è stato condannato all’ergastolo e a 20 anni aggiuntivi. Le richieste di scarcerazione da lui presentate nel corso della prigionia a partire dal 2000 – sette, finora – sono state sempre puntualmente respinte, anche per via della ferma opposizione della moglie di John. Nell’ultima richiesta, respinta il 23 agosto di quest’anno, i tre giudici che l’hanno esaminata motivano la loro decisione affermando che <<il suo rilascio al momento minerebbe enormemente il rispetto per la legge e significherebbe sminuire una tragica perdita causata da un efferato, ingiustificato, violento, freddo e calcolato crimine>>, frase che non collima pienamente con il profilo di un pazzo. Su questi piccoli squarci, e per il fatto che Lennon fosse sotto sorveglianza da parte della CIA e dell’FBI, sono sorte in questi anni le solite teorie cospirazioniste, che hanno indicato proprio nei servizi americani i mandanti dell’omicidio Lennon.

Ma al di là di tutto, la sola cosa certa è che siamo da 32 anni senza John Lennon. Ma non senza le sue canzoni. Questa, Woman, fu il primo singolo rilasciato dopo la sua morte.

Scritta per Yoko Ono, può essere estesa a tutte le donne in generale. Io vorrei dedicarlo in particolare a Lisa Puzzoli, 22enne di Basiliano, in provincia di Udine, che è l’ultima vittima in ordine cronologico della cieca violenza che colpisce le donne, in Italia come nel mondo.

So long, John. Addio, Lisa.

La stranezza di un giorno senza crimini: il giorno libero dei maggiordomi

“No news is good news”, dicono in UK e negli USA. E’ un proverbio antico che, applicato al mondo dell’informazione, significa che ogni notizia che viene riportata contiene la sua dose di spiacevolezza. In pratica, solo gli avvenimenti negativi diventano notizie.

In Italia la situazione non è molto diversa. Quante volte abbiamo ascoltato – per esempio durante quest’ultima, interminabile crisi economica – lamentele sul tono sempre negativo e pessimistico dei giornali o dei telegiornali, e parallelamente richieste – più o meno strumentali – di edulcorare la situazione, parlando anche di avvenimenti positivi?

Ecco che allora sta facendo sensazione una notizia – pubblicata tra gli altri da La Stampa e riportata dal Tg3 – relativa a un annuncio del New York Police Department, secondo cui lunedì 26 novembre, per la prima volta nella sua storia, a New York non si è registrato alcun crimine violento.

Una veduta di New York dall'Empire State Building (Photo: Murdo Macleod - guardian.co.uk)

Una veduta di New York dall’Empire State Building (Photo: Murdo Macleod – guardian.co.uk)

“The big news in the Big Apple this week may be what didn’t happen” scrive il giornalista della CNN Chris Boyette. Le cui parole evidenziano ancora di più la sorpresa per qualcosa di cui non ci si riesce quasi a capacitare: si può vivere senza il crimine?

In una città di 8 milioni di abitanti è, in effetti, una cosa poco comune. Lo è ancor di più considerando che siamo negli USA, un paese in cui il diritto alle armi riconosciuto per legge, e la massiccia circolazione delle stesse sono due cause, se non necessarie, almeno sufficienti per far sì che periodicamente uno squilibrato o un criminale entri in un luogo pubblico aprendo il fuoco all’impazzata e facendo strage di innocenti.

L’eccessivo stupore legato a questa notizia dovrebbe, però, farci riflettere. Forse ci siamo assuefatti così tanto alle notizie di omicidi, rapine, aggressioni, che non ci rendiamo conto che, dinanzi a questa news, non troviamo straordinario il messaggio positivo della stessa, quanto l’assenza di un qualsiasi elemento negativo? Abbiamo costruito una barriera di cinismo così spessa, che quasi ci interroghiamo per capire come mai, lunedì, non ci sono stati crimini a New York, piuttosto che gioire per questo?

Per fortuna, chi ha gioito – e ne aveva ottime ragioni – c’è stato. Il portavoce del NYPD, Paul Browne, ha lodato l’operato della polizia, ricordando come questa giornata storica e senza precedenti si inserisca in un trend in diminuzione che potrebbe permettere alla città di raggiungere, alla fine dell’anno, il più basso tasso di omicidi dal 1960.

E’ stata, d’altronde, una settimana da incorniciare, per la polizia di New York, grazie anche alla foto di Lawrence De Primo, l’agente 25enne immortalato – senza che lui se ne accorgesse, dice la fotografa Jennifer Foster – mentre donava a un senzatetto scalzo un paio di stivali invernali. Pubblicata sulla bacheca della pagina Facebook del NYPD ha ricevuto centinaia di migliaia di apprezzamenti da parte di altra gente che, fortunatamente, ha colto semplicemente il lato positivo della vicenda.

Il gesto del poliziotto di New York Lawrence De Primo, immortalato da Jennifer Foster. (Fonte: Facebook)

Il gesto del poliziotto di New York Lawrence De Primo, immortalato da Jennifer Foster. (Fonte: Facebook)

Tutti i cinici, invece, si accontentino di quanto comunicato dal NYPD a proposito della striscia record senza crimini violenti: “E’ durata 36 ore, da domenica sera, quando un uomo è stato sparato alla testa, fino a martedì mattina, quando c’è stata un’altra sparatoria”.

“Ecco, come volevasi dimostrare…”

Arafat, un mistero senza fine?

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Yasser Arafat, storico leader palestinese (Repubblica.it)

Un mistero che continua e, forse, s’infittisce.  A quasi 8 anni precisi dalla morte di Yasser Arafat (avvenuta in Francia l’11 novembre 2004), la salma dell’ex leader palestinese è stata esumata ieri mattina nella sua tomba-mausoleo di Muqatah, a Ramallah. Una commissione internazionale d’inchiesta analizzerà le spoglie dell’ex presidente dell’Autorità Palestinese per indagare sulle cause del suo decesso e chiarire, in particolare, se Arafat sia stato avvelenato o no.

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La Muqatah, il mausoleo di Arafat a Ramallah, chiuso per consentire i lavori per la riesumazione della salma del leader. (Fonte: Reuters)

Quest’ipotesi suggestiva, che evoca i romanzi della regina del giallo Agatha Christie, è stata avanzata, tra gli altri, dalla vedova di Arafat, Suha, e rilanciata clamorosamente da un’inchiesta della tv qatariota Al Jazeera andata in onda a luglio. In seguito a quel reportage e alla denuncia della vedova, la procura di Nanterre ha aperto un’inchiesta per omicidio che ha permesso, dopo i pareri positivi delle autorità politiche e religiose palestinesi, l’esumazione del corpo di Arafat.

Cosa si cerca di preciso?

Il principale indiziato per la morte del fondatore di al-Fath è un killer invisibile e letale: il polonio 210, isotopo altamente radioattivo già fatale al dissidente russo Alexander Litvinenko, morto anch’egli – strani scherzi del destino – nel mese di novembre, ma di 6 anni fa ( era il 23 novembre 2006).

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Alexander Litvinenko (Fonte: Guardian.co.uk)

Altissime tracce di questo elemento – anche dieci volte oltre la norma – sono state riscontrate da esperti dell’ Institut de Radiophysique di Losanna, in Svizzera, sugli effetti personali di Arafat, tra i quali la sua kefiah, divenuta una vera e propria icona. Sono stati i giornalisti di Al Jazeera a consegnarli all’istituto elvetico, dopo averli ricevuti dalla moglie dell’ex leader, Suha, per nulla convinta dei risultati ufficiali – per giunta secretati e finiti nelle mani del New York Times solo nel 2005 – dell’ospedale militare di Percy, a sud di Parigi, dove Arafat si spense dopo circa otto giorni di coma profondo.

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L’inchiesta di Al Jazeera ha alimentato i fautori della teoria dell’avvelenamento, in primis Mahmoud Abbas (Abu Mazen) successore di Arafat alla guida dell’Autorità Palestinese. Insieme a lui, la maggioranza dei palestinesi è convinta che a uccidere Arafat siano stati i servizi segreti israeliani, ma il governo di Netanyahu, attraverso dichiarazioni ufficiose dei suoi membri, ha sempre respinto ogni accusa.

Ora si spera che l’esumazione possa fare luce sul mistero che circonda la morte dell’ex leader dell’ANP. Un personaggio controverso, terrorista e fine diplomatico, premio Nobel per la pace nel 1994 ma al centro di numerose inchieste per corruzione, che ha alimentato in prima persona le leggende sulla sua figura fin dal suo luogo di nascita, sospeso tra Gerusalemme e l’Egitto. E che non poteva che scomparire circondato da fitte nubi che, forse, neanche un team di scienziati potrà diradare.

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La storica stretta di mano tra Yitzhak Rabin e Yasser Arafat alla Casa Bianca il 13 settembre 1993, abbracciati dal Presidente Usa Bill Clinton (Fonte: Flickr.com)